Un’iniziativa onorevole si traduce in un’occasione mancata: l’utilizzo errato delle parole contribuisce ad alimentare la discriminazione.
Il sindaco di Avellino presenta un’iniziativa dedicata ai lavoratori diversamente abili, i quali – sul modello di PizzAut – svolgeranno le principali mansioni ristorative all’interno di un locale ribattezzato ‘Nessuno è perfetto’.
“Un talent cafè aperto alla collaborazione dei diversamente abili affinché possano trovare dignità ed un’opportunità lavorativa” – ha spiegato Gianluca Festa – “[…] una cooperativa sociale che sarà costituita da ragazzi talentuosi perché le loro capacità possano avere il modo di emergere”. Un tentativo, dunque, di inclusione di una categoria ritenuta fragile, ma che tuttavia presenta dei concetti ampiamente discussi dalla comunità.
Quanto espresso dal sindaco mostra chiaramente una difficoltà evidente nel consentire efficacemente e soprattutto concretamente la loro integrazione. I monologhi pubblici che trattano di lotta alla discriminazione sociale – così come le iniziative che ne derivano – dovrebbero presupporre un’analisi approfondita delle parole. In quanto, un’espressione malriuscita rischia di minare la buona fede dei promotori. Ed è proprio ciò che è accaduto durante la presentazione del nuovo locale, tanto nell’esposizione del pensiero del sindaco, quanto nel nome con il quale il bar è stato ribattezzato.
Integrazione malriuscita
Sono due le pecche manifestate chiaramente dall’iniziativa avellinese. In primo luogo, la tendenza della comunità di esaltare – ingenuamente – presunti talenti e capacità cognitive dei soggetti diversamente abili finisce per svalutarli in quanto individui. In termini spiccioli, ciò viene percepito come il contentino ad una condizione irreversibile e tragicamente invalidante (esempio: sei sulla sedia a rotelle, però sei intelligente. Quel “però” suona, inevitabilmente, discriminante).
In secondo luogo, il nome con il quale è stato ribattezzato il locale si presenta come una beffa ironica per i normodotati, un po’ meno simpatica per i futuri dipendenti della struttura. “Nessuno è perfetto” – presuppone una sorta di giustificazione alla condizione ai quali la vita li ha costretti.
Significa ghettizzare tutti coloro che richiederanno di lavorare all’interno del “talent cafè” (così definito dal sindaco), i cui clienti non verranno attirati tanto dalla qualità del servizio, quanto dal desiderio di compiere una buona azione. Il lavoro si traduce così in carità, una pratica che – per quanto onorevole – mina la consapevolezza umana e soprattutto la dignità dei futuri dipendenti di Nessuno è perfetto.
Ed ecco dunque che un’iniziativa onorevole si trasforma inesorabilmente in qualcosa di fortemente penalizzante, in mancanza di un’analisi delle parole e dei concetti espressi pubblicamente. L’integrazione presuppone la normalizzazione della condizione, non certo la sua identificazione e sottolineatura. Il bar, laddove fosse stato concretamente inclusivo, non avrebbe dovuto vantare un nome che allude ai deficit fisici e cognitivi dei suoi dipendenti. Su questo l’intera comunità ha mostrato intransigenza.